PUNTI DI FUGA. INTERVISTA AD ALFONSO FIRMANI

Punti di fuga

L’andare via per andare oltre.

Di Chiara Filipponi
“Nella teoria prospettica il punto di fuga è il punto verso il quale tendono le linee di profondità.” Punti di fuga è il titolo della personale di Alfonso Firmani chiusasi il 22 ottobre scorso. On Art lo ha incontrato nel MAKE Spazio Espositivo per parlare di questo affascinante progetto e di molte altre cose.
Buona lettura!

Alfonso Firmani è ormai un’istituzione nel mondo dell’arte di Udine. Questo non solo perché opera con convinzione nel settore da diverso tempo, ma perché lo fa con una tenacia e una passione che lo contraddistinguono da sempre. A partire dagli anni ‘90, quando con un gruppo di artisti (Paolo Toffolutti, Walter Criscuoli, Aldo Ghiraldello, Beppe Rocco, Sandro Arcangeli, Giampaolo Zanon, Stefano Tubaro, Paolo Furlanis…) chiamato MAGAZZINO, esponeva in collettive di un giorno, un po’ carbonare, che avevano un gran successo di pubblico. Architetto di professione, artista, amante appassionato di Parigi, affascinato dalla letteratura e desideroso di portare avanti il messaggio che le arti vadano unite per poter dare il meglio l’una dell’altra, Alfonso è senza dubbio un personaggio unico nel panorama artistico udinese.

Ci accoglie in galleria dove inizia parlando delle sue opere, in particolare di una, dal titolo REM.

Ci sono molti modi di intendere il termine “fuga”. Quello che mi interessa è l’azione della fuga: l’andare via. Intendo una fuga strategica, un arretramento, un riposizionamento, una presa di distanza che possa anticipare un feroce contrattacco. Quello che intendo dire è che bisogna intraprendere un vero e proprio viaggio attraverso sé stessi per salvarsi dal vuoto di oggi che impone un’anestizzazione dell’io. Attraverso i miei lavori cerco di epifanizzare alcuni temi, come ad esempio in questo dal titolo REM che riguarda il sogno. Qui cerco di evocare delle idee attraverso delle suggestioni- la donna dal viso sognante che sembra un’apparizione in un sogno collegata compositivamente all’altro elemento del dittico costituito da sacchi fatti con le federe di cuscino (il luogo dove si sogna) il titolo stesso che indica un momento fondamentale del sonno, la fase R.E.M. Ovviamente tutti questi sono suggerimenti, perché non credo ci siano spiegazioni universali. I miei lavori invitano ad andare al di là di ciò che appare per guardare oltre sé stessi. 

 

Alfonso, facciamo un passo indietro, parlaci di te. La tua prima professione è quella di architetto. Quanto ha influenzato il tuo senso estetico questo tipo di formazione? 

La mia formazione architettonica acquisita a Venezia in quegli anni, è un capitale al quale attingo spesso. Questo perché l’equilibrio compositivo è alla base dell’espressione tra te e il soggetto che guarda. Attraverso l’estetica si ricevono subito delle suggestioni, più importanti quasi della spiegazione che si può dare delle opere stesse. Per me la questione della composizione è fondamentale perché è parte importante e decisiva della mia ricerca. A volte si creano degli squilibri voluti, ma attraverso l’estetica si raggiungono dei livelli di comunicazione immediati. È un meccanismo importantissimo. 

 

Siamo qui, al MAKE Spazio Espositivo, un luogo sicuramente importantissimo per una città come Udine dove non sono molte le gallerie d’arte. Ti chiedo a questo punto, qual è secondo te il senso di fare una mostra? E soprattutto di farla in una realtà come Udine?

Fare una mostra secondo me è la conclusione naturale di un lavoro, che altrimenti resterebbe in sospeso per sempre. Il momento più bello della realizzazione di un progetto è vederlo compiuto, vederlo impaginato sulle pareti esattamente come lo avevi immaginato per mesi. 

Tuttavia, fare una mostra a Udine è forse un errore. Questo non perché non ci sia un pubblico di arte contemporanea, anzi, il pubblico c’è ed è molto presente. Una mostra è un’ottima occasione per farsi conoscere, ma temo che il tutto si concluda lì. Esporre dà il via ad una serie di occasioni di scambio e confronto e questo è l’aspetto positivo ma esiste un grosso problema: quello della mancanza di rete con le gallerie di altre città ed è un vero peccato. Io collaboro ormai da tempo con un consolidato gruppo di artisti e fotografi (Elisabetta Novello, Carlo Vidoni, Francesco Comello, Anna Pontel, Massimo Poldelmengo, Paolo Ferrari, BaAbat, Alessandra Carloni, Paolo Furlanis, Tommy Balestra) con il quale cerchiamo di realizzare dei progetti concreti di riqualificazione di spazi urbani convinti del ruolo che in questo contesto può svolgere l’arte contemporanea. Tra noi artisti c’è un’intesa eccellente che crea dei progetti molto interessanti; lavorare con queste persone è stimolante riuscendo facilmente a stabilire una rara complanarità di pensiero. 

Ad esempio questo lavoro qui esposto in mostra, “Itaca”, può essere inteso come una condizione mentale condivisa, un’idea alla quale ci si sente di appartenere. Il mare è rappresentato da un tessuto nero le cui onde si intrecciano attraverso una trama di fili con una figura archetipica e splendente della casa. Lavorare con i miei amici artisti produce questo senso di appartenenza a un’Itaca, a un’idea di ricerca condivisa e sviluppata con esiti diversi. 

 

La tua anima di artista si riversa anche nella tua professione di docente al Liceo artistico Sello. Come vedi la situazione artistica tra i ragazzi di oggi? 

La percentuale di studenti che si interessa all’arte contemporanea è molto bassa a causa dei programmi ministeriali. Nella nostra scuola si cerca di stimolare la fantasia con diverse attività, come la giornata della creatività, durante la quale i ragazzi si esprimono liberamente e il riscontro è molto positivo. Tuttavia, i loro lavori sono molto “ingenui” e totalmente distanti dal mondo dell’arte contemporanea. 
Lo studio della storia dell’arte è fondamentale ma dovrebbe essere più agile e rappresentare una base per poi conoscere e capire le esigenze della progettazione artistica dove bisogna avere una visione d’insieme e non ragionare a compartimenti stagni. 

I ragazzi a cui insegno, nati quasi tutti nel 2000, sono nati digitali. Internet fa parte della loro natura e questo fatto rappresenterebbe una ricchissima risorsa. In realtà è spesso un limite poiché spiana la strada alla raccolta di elementi precostituiti che i ragazzi si limitano ad assemblare, senza grande sforzo creativo. Bisognerebbe piuttosto coltivare la gestualità, riconsiderare l’importanza del disegno come esercizio capace di mettere in contatto il pensiero e la sua l’espressione. Certe pratiche artistiche richiedono un approfondimento e una concentrazione che oggi i ragazzi non sono disposti ad attivare. La noia, che loro non si concedono di provare, è una sensazione che rallenta il tempo e in questo modo crea spazi di ispirazione. Quando viaggio, ad esempio, riempio la mia mente di suggestioni e sfrutto la tecnologia di oggi. Tuttavia il momento più bello per me è quando mi fermo a disegnare perché in questo modo rielaboro le informazioni e metto in relazione le cose tra di loro, scolpendole nella mia memoria in modo profondo. L’arte contemporanea non può insistere su questi temi ormai superati, tuttavia questi sono esercizi che servono nella fase preparatoria e creativa che precede la realizzazione di un lavoro. 

 

Parlando di ispirazioni, chi è il tuo maestro?

Jannis Kounellis. Ogni volta che vedo qualcosa di suo sento che mi sta “dando” qualcosa. Una volta ho sentito una sua intervista in cui ha pronunciato una parola che mi ha aperto un mondo. Quando non si sa definire una sensazione vuol dire che ancora non la si possiede, mentre darle un nome è una forma di razionalizzazione. La parola drammaturgia, pronunciata da Kounellis, ha risolto e messo in ordine alcune ricerche compositive che avevo in testa. Mi ha semplificato l’iter progettuale. Ad esempio, quest’opera Au revoir, ha un titolo evocativo, che può significare un arrivederci oppure un addio, e ho scelto di inserire una bombetta che rimanda a diversi significati nel mondo dell’arte (Magritte o Chaplin ad esempio) e inoltre è un simbolo tipicamente maschile. Ciò è messo in relazione con il lenzuolo di pizzo che rappresenta il femminile, e sopra la valigia. Questa simboleggia la partenza, una partenza tuttavia sofferente, come suggerito dai chiodi (che fanno pensare a Man Ray). Quello che c’è in composizione vuole alludere a dei significati e a quegli artisti che nel corso della mia vita mi hanno ispirato ma tutto ciò è solo un suggerimento interpretativo, poiché in fondo ognuno è libero di vedere nell’opera ciò che sente. 

 

L’arte è fondamentale nella tua vita. Quanto è presente nella tua vita quotidiana? E soprattutto, quanto ti ha aiutato in momenti per te difficili? 

Mi ha aiutato sempre tanto. Io ho continuamente in testa questa attività, come un ritornello che si ripete, un rumore di fondo. Spesso chi mi è accanto mi fa notare che sono spesso concentrato su questo tipo di attività, che a mio avviso apre dei recettori mentali che altrimenti sarebbero inutilizzati. Dedicarsi così all’arte ti mette in contatto con quote di magia che aumentano il sapore della ricerca e della vita che vivi. 

 

Una curiosità, qual è il momento della giornata in cui sei più produttivo?

Appena sveglio. È il momento in cui la mia mente è più libera. Svegliandomi presto cerco di estendere quel momento finché posso. La gestazione dei miei progetti è molto lunga, fa parte del mio carattere, ma una volta terminata la fase progettuale mi dedico poi alla realizzazione del tutto. In questa fase si incontrano delle difficoltà e degli stimoli dovuti alla relazione con la materia che spesso ti suggerisce direzioni impreviste. Ho impiegato un anno per ideare questa mostra al MAKE Spazio Espositivo e quattro mesi per realizzare il tutto. Quando devo realizzare un progetto solitamente mi do un tema e ci lavoro. Ad esempio qui c’è un tema principale, la fuga, sviluppato poi con diversi sottotemi quali il sogno, l’arrivederci, Itaca, il dejà – vu… 

 

Ci hai parlato degli artisti che ti ispirano, ma spesso citi dei libri e diversi autori. Quanto è importante la letteratura per te? 

È fondamentale per me.  Sono moltissimi i personaggi e le storie che mi ispirano.  Per me il libro è un elemento fondamentale e le scritte qui rappresentate sono pura grafica. Funzionano come innesco narrativo, come evocazione di storie.  Il libro è un mezzo per vivere altre vite, come lo è l’arte. 

 

Passiamo alle altre opere in mostra. Dejà – vu, un titolo interessante per un’opera…

La scritta al neon Dejà – vu sottolinea la forza evocativa e la bellezza della parola.  Le piume, su lamiera nera, con il loro ripetersi leggero cercano di evocare il tema dell’opera, e alludono alla leggerezza, al ricordo di un volo ripetuto. 

Da due personaggi che seguo molto, Christian Boltanskj e Win Wenders, è nata invece l’idea dell’opera accanto (Passages) dove immagino le storie delle persone incontrate in metro. La composizione è tripartita: sopra sono presenti delle lastre di metallo stampate dove c’è la sovrapposizione della mia sagoma a disegni e foto rielaborati digitalmente, sotto delle fotografie inserite nell’olio di lino, materiale simbolo per eccellenza della pittura. Questo elemento crea la sensazione tipica degli studi d’artista, con l’odore forte dato da questo legante naturale. I fili rappresentano invece quel desiderio ingenuo dell’arte di catturare un momento vissuto, di fermare ciò che non si può trattenere attraverso la pittura. 

 

Tornando al piano superiore della galleria vedo che hai esposto anche delle cartelle con dei disegni, come mai questa scelta? 

Per me è fondamentale mostrare anche la fase preparatoria dei lavori.  Non si tratta solo di disegni ma anche di collage fotografici digitali. C’è una grande quantità di direzioni non prese in queste cartelle, ma fanno parte del lavoro preliminare. Ci sono anche molte foto perché per me la fotografia è uno strumento per catturare immagini che poi posso rielaborare in un momento successivo. Il tema del tempo è anche molto presente, ma l’orologio è sempre senza lancette perché è un tempo fermo, senza misura, solo mio. Un’altra dimensione dove i minuti scorrono in modo soggettivo, non universale. Parigi è un’altra mia passione, che si ritrova all’interno di gran parte di queste composizioni.  

 

Un’ultima domanda Alfonso. Da quanto ci hai detto l’arte è per te un sentire e un vivere quotidiano ma quanto pesa a tuo avviso il fattore economico nella vita di un artista?

L’arte è per me un mestiere: sarebbe bello poter vivere esclusivamente di questo, in modo da non avere distrazioni. Il problema economico purtroppo genera ansia e frustrazione ed è fuorviante nel momento creativo. In altri paesi diversi dal nostro c’è lo Stato che viene incontro e aiuta l’artista in molti modi considerando molto importante il suo ruolo sociale. Noi invece siamo abituati a dare un valore a tutto, a qualsiasi professionalità, tranne che a quella artistica. Purtroppo produrre arte costa, e questo è un limite per la creatività. Un’associazione come On Art potrebbe essere fondamentale per generare quella serie di relazioni tra il mondo degli artisti e delle imprese che ad oggi risulta quasi inesistente. Ci sono agevolazioni fiscali che riguardano l’arte, ma sia gli artisti che gli imprenditori sembrano essere estranei a questi concetti. A Udine c’è un buon fermento artistico, anche se è nascosto a molti, ma sarebbe necessario renderlo accessibile a tutti. L’arte e la cultura in genere purtroppo non sono percepite come un’esigenza sociale. 

 

Per concludere, come ti definiresti in due parole? 

Una volta una classe di bambini dell’asilo è stata portata in visita al mio studio e uno di loro, dopo aver visto una delle mie opere, mi ha detto “Ma tu, sei matto?”. Mi ha fatto molto ridere…

 

Post a comment