FINO A CHE PUNTO SI SPINGE IL DIRITTO DI CRITICA… D’ARTE?

I CASI LEGALI NEL MONDO DELL’ARTE

Di Marina Isaia

 

Il caso di cui ci occupiamo ci fornisce l’occasione per compiere un brevissimo excursus sulle pronunce in tema di diritto di critica/diffamazione di opere intellettuali.

Qualche mese fa la corte di Appello di Milano, con sentenza pubblicata il 20 maggio 2019, ha confermato quanto la sentenza di primo grado emessa dal Trib. Milano, il 6 luglio 2017, che avevaritenuto Vittorio Sgarbi responsabile dei reati di ingiuria e di diffamazione nei confronti del critico Sebastiano Grasso, aumentando peraltro l’ammontare del risarcimento del danno in modo considerevole (da 1.000 a 24.000 euro).

Tutto ebbe origine nel 2011 quando Sgarbi fu chiamato a curare il Padiglione Italia della 54° Biennale di Venezia, battezzandolo L’arte non è cosa nostra. Un titolo programmatico che nel suo stile voleva essere una polemica verso la “mafia dell’arte” in cui, secondo il critico ferrarese, i curatori e i critici “indipendenti” spadroneggiano, facendo emergere solo gli artisti da loro “protetti”. E così Sgarbi decise di far selezionare gli artisti che avrebbero partecipato non da parte di addetti ai lavori, ma da personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, da Claudio Magris a Stefano Zecchi, da Vladimir Luxuria a Elio Fiorucci.

Ne uscì un Padiglione Italia – lo si ricorderà – fortemente criticato, definito “sgangherato e pleonastico” da Renato Barilli o “strampalato” da Sebastiano Grasso, in un articolo apparso il 5 giugno 2011 sul Corriere della Sera dal titolo Padiglione Sgarbi: esempio di una vicenda molto di famiglia. In questo articolo in particolare Grasso metteva in luce come dal suo punto di vista le scelte di Sgarbi fossero dettate (o avessero avuto come conseguenza) in realtà proprio quello che lo stesso si era promesso di combattere: vale a dire il clientelismo e l’opportunismo nella scelta degli artisti.

Apriti cielo! Sgarbi queste ultime critiche non le digerì e tra giugno e agosto di quell’anno inviò a Grasso numerosi SMS “di contenuto evidentemente offensivo” e “lesivo della dignità e del decoro” del destinatario e dopo averlo definito un “sedicente poeta” affermava che lo stesso, negli anni in cui era stato responsabile della pagina culturale del Corriere della Sera, “ne aveva fatto una riserva di favori e dispetti tanto da mortificarla in una dimensione provinciale e senza alcun respiro culturale”.

Ecco, fino a che punto un critico (d’arte, letterario, musicale, teatrale, ecc.) e/o giornalista può spingersi nelle sue valutazioni nei confronti dell’operato altrui?

L’art. 21 della nostra Costituzione afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Il diritto di libera manifestazione del pensiero comprende sia quello di cronaca sia quello di critica.

Quest’ultimo, a differenza del primo, mira “non già a informare” quanto a “fornire giudizi e valutazioni personali” e, sempre a differenza di quello di cronaca, che è “rivolto a trasmettere informazioni concernenti fatti di pubblico interesse” ed è “ancorato alla più rigorosa obiettività”, si esprime in un “giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti”.

Il diritto di critica si fonda quindi su un criterio soggettivo e incontra limiti meno stringenti rispetto a quello di cronaca, che richiede che la notizia 1) poggi su basi veritiere, 2) rivesta un interesse pubblico e 3) rispetti il principio c.d. della “continenza”, intesa come correttezza della modalità di espressione, che non deve essere infamanti e inutilmente umiliante. Nel diritto di critica – basato sulla soggettività – il principio di verità è infatti più sfumato e “limitato alla oggettiva esistenza di dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse” mentre quello di continenza “è assai meno rigido”. Infatti, “posto che qualunque critica che concerna persone è idonea a incidere in qualche modo in senso negativo sulla reputazione di qualcuno, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione di taluno significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Sostenere una tesi diversa significherebbe affermare che nel nostro ordinamento giuridico è previsto e tutelato il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero solo ed esclusivamente nel caso che questo consista in approvazioni e non in critiche”. Pertanto, afferma la giurisprudenza, “il diritto di critica può essere esercitato utilizzando espressioni di qualsiasi tipo anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato”.

Ciò è quanto sostiene la nostra giurisprudenza.

Compito del giudice è di operare un bilanciamento di interessi: quello alla reputazione individuale da un lato e quello alla libera manifestazione del pensiero dall’altro.

Come a dire: sull’opera si può dire tutto, ma sul suo autore state invece molto attenti…

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