EPIDEMIE E SALUTE PUBBLICA

Di Gianna Ganis

Analogie fra Passato e Presente

Chi ci abbia seguito nei talks di On Art, ha potuto ascoltare la nostra archeologa dottoressa Salierno che in questo periodo pandemico, ci ha raccontato di medici e medicina nella Grecia antica e dell’influenza delle pratiche “mediche” importate e applicate nel mondo romano.

Con questo breve intervento, vorrei invece portare alla vostra attenzione alcuni dati e vicende storiche relativamente più recenti rispetto alle numerose epidemie non solo di peste, che flagellarono il Friuli fra il 1400 e il 1600, alle modalità con le quali la Repubblica di Venezia cercava di arginare il contagio e alle analogie che si evidenziano riferite ai provvedimenti adottati nel passato e nel presente.

Le corrispondenze nell’ affrontare il dilagare di un’infezione grave, diventata nel nostro caso attuale una pandemia, e al di là delle moderne conoscenze scientifiche di cui noi disponiamo per combatterla, possiamo rilevare quanto queste si intreccino con le misure e le precauzioni che adottarono i nostri antenati risultando decisamente sovrapponibili alle disposizioni e alle azioni messe in atto dalle nostre istituzioni oggi. Certamente sopravvivere nel ‘500 ad una epidemia di peste in ambienti malsani, infestati dalle pulci, senza metodi di conservazione dei cibi già scarsi, senza medicinali efficaci deve essere stata un’impresa, ma allora, pur senza conoscenza della natura della malattia, cercare di limitare i contagi fu sicuramente e da subito intuita come una delle migliori ipotesi praticabili per non soccombere.

 

LE EPIDEMIE – La virulenza

La malattia che mieteva più vittime e che terrorizzava i territori fu certamente fino al diciannovesimo secolo era la “peste bubbonica” infezione batterica causata dall’introduzione nell’organismo del bacillo Yersinia pestis attraverso la cute a seguito del morso di una pulce infetta. Trattasi

infatti di una zoonosi (malattia che passa dall’animale all’uomo) il cui bacino è costituito da varie specie di roditori e il cui unico vettore è la pulce dei ratti. Il bacillo, solitamente identificato dal sistema immunitario e fagocitato dai leucociti, viene smaltito attraverso il sistema linfatico fino ai linfonodi, dove però resta attivo e continua ad accumularsi moltiplicandosi. Ciò provoca una infiammazione di uno o più linfonodi, solitamente nella zona ascellare o inguinale più prossima alla zona della puntura. I linfonodi colpiti divengono rigonfiamenti dolorosi detti appunto “bubboni”.

La forma setticemica, che è solitamente la causa del decesso, ha come sintomo vistoso l’ischemia e la necrosi delle estremità (dita, piedi o mani), che diventano nere; ciò ha probabilmente contribuito a coniare il nome “peste nera” per indicare la pandemia esplosa in Europa a metà del XIV secolo che sterminò due terzi della popolazione europea.

Molte epidemie erano piuttosto frequenti in Friuli e in tutta Italia tanto da costituire argomento essenziale delle tradizioni popolari o nelle danze macabre. Nella sola regione friulana il fenomeno “peste” si era manifestato una ventina di volte nel corso del XV secolo, tanto da divenire quasi endemico, anche se occorre precisare che spesso il morbo veniva confuso con altre epidemie quali tifo petecchiale e vaiolo. Cinque episodi si verificarono per esempio nel Cinquecento, con il più grave nel 1511 a Udine (stesso anno della Zobia Grassa) e a Venezia tra il 1575-78 con 50.000 morti seguita dalla catastrofica peste del 1630. Questi dati ci indicano come la presenza costante della diffusione delle epidemie fosse una continua minaccia per le comunità: le malattie causavano un’alta mortalità con conseguente spopolamento dei territori, condizione che determinava principalmente mancanza di manodopera per l’agricoltura e per i commerci con frequenti periodi di miseria e carestia.

 

IL CONTROLLO DEI FLUSSI – La chiusura delle frontiere

Nel nostro territorio governato all’epoca dalla Repubblica di Venezia, l’importanza della provincia friulana risultava duplice in riferimento al controllo della diffusione delle malattie attraverso i movimenti di persone e cose. Il Friuli infatti controllava le vie commerciali legate all’impero Asburgico e aveva vitale importanza nel proteggere Venezia contro i Turchi in caso di guerra. In particolare, la relativa vicinanza del Friuli agli stati turchi “perpetui seminari di pestea causa dell’atteggiamento fatalista dell’impero della mezzaluna nei confronti della malattia, rendeva necessario per la Repubblica proteggere i confini, chiudere i passi e organizzare il controllo sui flussi delle persone.

Al Friuli “gran porta d’Italiala Serenissima assegnò quindi un compito di difesa sia militare che sanitaria.

 

LE MISURE ANTI CONTAGIO – Le zone rosse

Il 30 agosto del 1598 venne diagnosticato un primo caso di peste a Cividale e il Provveditore Generale Nicolò Donà, eletto dal Senato di Venezia ordinò che nessuno lasciasse la città e decretò una quarantena generale che durò quasi 2 settimane. La penalità per chi uscisse di casa era la morte per fucilazione, dopo di che i corpi venivano appesi alle forche come monito. Quando alla fine della quarantena pochi furono i segni di miglioramento, i cittadini chiesero di poter essere liberi di lavorare in campagna ma Donà rispose che sarebbe stato meglio perdere un raccolto che mettere tutti in pericolo. Così a metà ottobre ripartì una seconda quarantena che doveva durare 40 giorni. Ci furono 115 decessi e solo a novembre la peste cominciò a declinare. A Natale si operò per la disinfezione dei beni, le case vennero pulite, bruciate o sottoposte a fumigazione e poi imbiancate a calce. Agli abitanti di Cividale fu consentito di uscire dalla città il 17 gennaio 1599, dopo 5 mesi.

 

GLI INTERESSI COMUNI – La salute pubblica

Questa e altre epidemie non vennero trattate dalla Serenissima come un problema locale: lo Stato veneziano si era assunto la responsabilità dell’emergenza attraverso i suoi rappresentanti e la presa in carico dei suoi cittadini. Infatti, durante le epidemie gli abitanti delle zone infette, quando possibile, venivano trasferiti dalle loro case in strutture temporanee (restelli e casoni) costruite allo scopo in quanto si era notato che il rischio di ammalarsi si correva non solo per contatto fra persone ma anche per la permanenza in ambienti infetti, e quando le abitazioni dovevano essere bruciate in contropartita i cittadini ricevevano un indennizzo. Come ultimo atto dei servizi di Venezia a protezione sua e dei suoi sudditi, fu la costruzione del Lazzaretto di Pontebba nel 1625 il quale rappresentò uno strumento fondamentale della politica di Stato progettato per proteggere non solo la provincia friulana ma l’intera Repubblica.

 

IL RUOLO DELLA POLITICA – Le misure restrittive

Vale la pena ricordare un serie di errori che la Repubblica di Venezia compì in particolare nella diffusione della peste del 1630 che ci ricordano atteggiamenti di negazione che abbiamo visto ai nostri giorni.

Per prima cosa il Doge che ospitava in quei mesi il già malato ambasciatore di Mantova invece che al Lazzaretto Vecchio, lo fece trasferire nell’isola di San Clemente dove venne in contatto con molte persone che diffusero così il morbo. A quel punto il Doge fece negare agli organi di Stato l’evidenza della malattia per il timore di compromettere il benessere economico della Serenissima con la doverosa applicazione di misure troppo restrittive ovvero facendo cessare i traffici commerciali e le attività cittadine. Le conseguenze furono catastrofiche.

Il monito che ci arriva da quegli errori è di non anteporre gli interessi economici alla salute dei cittadini soprattutto in situazioni così gravi delle quali non possiamo avere il pieno controllo.

Di tutte queste sventure ci restano per fortuna anche magnifiche opere che ricordano, a testimonianza e per voto, quei tragici eventi mortiferi: la pala d’altare del Tiepolo “Santa Tecla libera Este dalla pestilenza” oggi nel Duomo della cittadina e la magnifica Basilica della Salute a Venezia eretta proprio a ringraziamento per la fine del terribile contagio .Così l’arte divenne strumento di fede per i veneziani che gioirono di essere sopravvissuti nonostante i morti e un’economia da ricostruire.

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